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La Signora Crisantemo

La Signora Crisantemo

di Pierre Loti
Tarka edizioni

Introduzione

In mare, intorno alle due del mattino, in una notte calma, sotto un cielo pieno di stelle.

Ivo stava vicino a me, sul cassero, e discorrevamo del paese assolutamente nuovo per tutti e due, dove ci conducevano questa volta i casi del nostro destino. Dovevamo approdare il giorno seguente; quell’attesa ci divertiva, e andavamo formando mille progetti.

– Io – dicevo – appena sarò arrivato mi ammoglierò…
– Ah! – disse Ivo, colla sua aria indifferente, da uomo che non si sorprende più di nulla.
– Sì, con una donnina dalla pelle gialla, dai capelli neri, dagli occhi di gatto. La sceglierò carina. Non sarà più alta di una bambola. Tu avrai una camera in casa nostra. Sarà una casa di carta, all’ombra, in mezzo ai giardini verdi. Voglio che tutto sia fiorito, intorno; abiteremo tra i fiori, e ogni mattina la nostra abitazione verrà empita di mazzi, di mazzi come non ne avrai visti mai…

Pareva, ora, che Ivo s’interessasse di quei progetti di famiglia. Mi avrebbe, d’altronde, ascoltato con altrettanta fiducia, se gli avessi manifestata l’intenzione di pronunciar voti temporanei presso dei monaci di quel paese, oppure di sposare una qualche regina delle isole e di rinchiudermi con lei, in mezzo a un lago incantato, in una casa di giada.

Ma mi ero realmente ben fissato nella testa quel programma di esistenza che gli esponevo così. Per noia, mio Dio, e per troppa solitudine, ero giunto a poco a poco a immaginare e a desiderare quel matrimonio. E poi, sopratutto, volevo vivere un poco a terra, in un cantuccio ombroso, fra gli alberi e i fiori… Che cosa seducente, questa, dopo i mesi della nostra esistenza, che avevamo persi, recentemente, alle Pescadores (che sono isole calde e sinistre, senza verde, senza boschi, senza ruscelli, impregnate dell’odore della Cina e della morte).

Avevamo percorso molto spazio in latitudine, dacché la nostra nave era uscita da quella fornace cinese, e le costellazioni del nostro paese erano rapidamente mutate: scomparsa la Croce del Sud con le altre stelle australi, l’Orsa Maggiore era risalita verso lo zenit ed era alta, ora, quasi come nel cielo di Francia. Già l’aria più fresca che si respirava quella notte ci riposava, ci rianimava deliziosamente, ci ricordava le nostre notti di quarto, d’una volta, nell’estate, sulle coste di Bretagna…

Pure, a quale distanza eravamo da quelle coste familiari; a quale distanza spaventevole!…

 

I

All’alba, scorgemmo il Giappone.
Esattamente all’ora prevista, apparve, ancora lontano, in un punto preciso di quel mare che, per tanti giorni, era stato lo spazio vuoto.
Non fu, dapprima, che una serie di piccole cime rosee (l’arcipelago avanzato delle Fukai, al sol levante). Ma, dietro, lungo tutto l’orizzonte, si vide presto come una pesantezza nell’aria, come un velo gravante sulle acque: era, quello, il vero Giappone, e a poco a poco, in quella specie di grande nube confusa, si profilarono delle forme assolutamente opache, che erano le montagne di Nagasaki.

Avevamo vento contrario; una brezza fresca che cresceva di continuo, come se quel paese avesse soffiato con tutte le sue forze contro di noi per allontanarci da sé. Il mare, i cordami, la nave, erano agitati e rumoreggianti.

 

II

Verso le tre del pomeriggio, tutte quelle cose lontane si erano avvicinate, avvicinate tanto da sovrastarci con le loro masse rocciose o coi loro grovigli di verde.
Ed entravamo ora in una specie di corridoio ombroso, fra due file di altissimi monti, che si succedevano con una bizzarria simmetrica, come le quinte di una scena tutta in profondità, estremamente bella, ma non abbastanza naturale. Pareva che quel Giappone s’aprisse davanti a noi, in uno squarcio incantato, per lasciarci penetrare fin dentro al suo cuore.

In fondo a quella baia lunga e strana, doveva esserci Nagasaki, che non si vedeva ancora. Tutto era ammirabilmente verde. Alla grande brezza dell’alto mare, bruscamente caduta, era successa la calma; l’aria, divenuta caldissima, s’empiva di profumi di fiori. E, in quella valle, s’udiva una sorprendente musica di cicale, che si rispondevano da una riva all’altra. Tutti quei monti echeggiavano del loro frinire innumerevole; tutto quel paese dava come una incessante vibrazione di cristallo. Sfioravamo, passando, popoli di grandi giunche, che scivolavano dolcissimamente, sospinte da brezze impercettibili. Sull’acqua appena increspata, non s’udivano andare; le loro vele bianche, tese su pennoni orizzontali, ricadevano mollemente, drappeggiate a mille pieghe come tende; le poppe complicate s’inalzavano a castello, come quelle delle navi medioevali. In mezzo al verde intenso di quelle muraglie di monti, esse avevano una bianchezza di neve.

Che paese di verde e di ombra, il Giappone! Che Eden inaspettato!…

Fuori, sul mare aperto, doveva essere ancora giorno chiaro; ma dentro quella valle incassata, si aveva già un’impressione di sera. Sotto vette illuminatissime, le basi, tutte le parti più folte vicine alle acque, erano in una penombra di crepuscolo. Quelle giunche che passavano, sì bianche sullo sfondo cupo dei fogliami, erano manovrate senza rumore, meravigliosamente, da piccoli uomini gialli, nudi, con lunghi capelli pettinati come capelli di donne. Quanto più ci s’ingolfava nel verde corridoio, i profumi divenivano più penetranti e il frinire monotono delle cicale si gonfiava come un crescendo d’orchestra. In alto nel frastaglio luminoso del cielo tra i monti, si libravano uccelli simili a girifalchi, che facevano: “han! han! han!” con un suono profondo di voce umana; i loro gridi stonavano tristemente in quel luogo, prolungati dall’eco.

Tutta quella natura esuberante e fresca aveva in sé una stranezza giapponese; ciò risultava da un non so che di bizzarro che avevano le cime dei monti, e, se così si può dire, dall’inverisimiglianza di certe cose troppo leggiadre. Certi alberi si disponevano a mazzi, con la stessa grazia preziosa che se fossero stati dipinti su vassoi di lacca. Grandi rupi sorgevano ritte, in posture esagerate, accanto a poggi dalle forme gentili, coperti di morbidi tappeti erbosi: elementi disparati di paesaggio eran vicini l’uno all’altro, come nei luoghi artificiali.
… E, guardando bene, si scorgeva qua e là, spesso costruita a picco al disopra di un abisso, qualche vecchia pagoda, piccola e misteriosa, seminascosta nel groviglio degli alberi sospesi. Questo, specialmente, gettava subito ai nuovi venuti, come noi, la nota lontana, e faceva sentire che in quella contrada gli Spiriti, gli Dei boscherecci, i simboli antichi messi a vegliare sulle campagne, erano ignoti e incomprensibili…

Quando Nagasaki apparve, fu una delusione pei nostri occhi. Alle falde dei verdi monti strapiombanti, era una città assolutamente qualunque. Davanti, una confusione di bastimenti con tutte le bandiere del mondo, piroscafi come altrove, fumi neri, e, lungo le banchine, degli opifici. In fatto di cose banali, già viste dappertutto, nulla vi mancava.
Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa, per i suoi abitanti, quando l’avremo resa tutta uguale da un capo all’altro, e non si potrà più nemmeno tentar di viaggiare per svagarsi un poco…

Verso le sei gettammo l’ancora con molto rumore, in mezzo a una quantità di bastimenti, e subimmo immediatamente un’invasione.
L’invasione d’un Giappone mercantile, premuroso, comico, che giungeva a noi in barche, in giunche gremite, come una marea crescente: uomini e donne che entravano in lunghe file ininterrotte, senza grida, senza contestazioni, senza chiasso, ognuno con una riverenza tanto sorridente, che non si osava andare in collera, e che infine, per effetto riflesso, obbligava a sorridere e a salutare a quello stesso modo. Portavano tutti, sulle spalle, dei cestelli, delle cassette, dei recipienti d’ogni forma, inventati nel modo più ingegnoso perché possano stare uno nell’altro e moltiplicarsi poi fino a produrre ingombro, fino all’infinito. Ne uscivano cose inaspettate, inimmaginabili: paraventi, scarpe, sapone, lampioncini; bottoni da polsini, cicale vive che cantavano in certe gabbiette; minuterie, e topi bianchi addomesticati, capaci di far girare dei piccoli mulini di cartone; fotografie oscene; zuppe e intingoli, in scodelle, caldi, pronti per esser serviti a porzioni all’equipaggio; e delle porcellane, legioni di vasi, di teiere, di tazze, di vasetti e di piatti… In un batter d’occhio, tutte queste cose venivano esposte, allineate sul ponte con una rapidità prodigiosa e con una certa arte; ogni venditore s’accoccolava come una scimmia, colle mani sui piedi, dietro ai suoi ninnoli, sempre sorridente, sempre piegato in due dalle più graziose riverenze. E il ponte della nave, sotto quei mucchî di cose multicolori, pareva a un tratto un immenso bazar. E i marinai, divertendosi molto, allegrissimi, calpestando i mucchî, prendendo pel mento le venditrici, compravano di tutto, seminavano prodigalmente le loro piastre bianche…
Ma, mio Dio, com’era brutta, tutta quella gente, e meschina, e grottesca! Dati i miei progetti di matrimonio, cominciavo a essere molto pensieroso, molto disilluso…

Eravamo di servizio, Ivo ed io, fino alla mattina successiva, e, dopo le prime agitazioni che a bordo seguono sempre le operazioni dell’ancoraggio (imbarcazioni da mettere in mare; scale, pertiche da spinger fuori), non avevamo più da fare altro che guardare. E pensavamo: Dove siamo, veramente? Negli Stati Uniti? In una colonia inglese d’Australia? O nella Nuova Zelanda?
Consolati, dogane, stabilimenti; un dock dove troneggia una fregata russa; tutta una concessione europea, con delle ville sulle alture, e, lungo le banchine, dei bars americani per i marinai. Laggiù, veramente, laggiù, dietro quelle cose comuni e più lontano, in fondo in fondo all’immensa vallata verde, migliaia e migliaia di casette nerastre, una confusione d’un aspetto un po’ strano, da cui emergono qua e là tetti più alti dipinti in rosso cupo: probabilmente la vera, la vecchia Nagasaki giapponese che sussiste ancora… E in quei quartieri, chi sa?, civettante dietro un qualche paravento di carta, la donnina dagli occhi di gatto… che, forse, in due o tre giorni (non avendo tempo da perdere) avrei sposata!!… Però, non la vedo più molto bene, quella donnina; le venditrici di sorci bianchi mi hanno guastata la sua immagine; temo, ora, ch’ella somigli loro…
Verso sera il ponte della nostra nave si vuotò come per incanto; richiuse in un batter d’occhio le scatole, ripiegati i paraventi a cerniere, i ventagli a molla, fatta a ognuno di noi la più umile riverenza, gli omiciattoli e le donnette se ne andarono.

E man mano che la notte calava, confondendo le cose in un’oscurità azzurrognola, quel Giappone in cui eravamo ridiveniva a poco a poco, a poco a poco, un paese d’incanti e di magia. I grandi monti, ora tutti neri, si sdoppiavano, alla base, nell’acqua immobile che ci reggeva, si riflettevano coi loro frastagli rovesciati, dando l’illusione di precipizii spaventosi al disopra dei quali fossimo sospesi; e le stelle, pure rovesciate, facevano, in fondo all’abisso immaginario, come un semenzaio di macchioline di fosforo.
Poi, tutta Nagasaki s’illuminava a profusione, si copriva di lanterne all’infinito; ogni minimo sobborgo, ogni minimo villaggio s’illuminava; anche l’infima capanna, appollaiata lassù, tra gli alberi, e che di giorno non si era nemmeno veduta, mandava il suo piccolo bagliore di lucciola. In breve vi furono luci innumerevoli, ve ne furono dappertutto; da tutte le parti della baia, dall’alto al basso dei monti, miriadi di fuochi brillavano nel buio, dando l’impressione di una capitale immensa, digradante intorno a noi in un vertiginoso anfiteatro. E sotto, tanto l’acqua era tranquilla, un’altra città, pure illuminata, scendeva in fondo all’abisso. La notte era tepida, pura, deliziosa; l’aria era piena di un odore di fiori che i monti ci mandavano. Suoni di chitarre, giungenti dalle “case da tè”, dai luoghi di dissolutezza, parevano, nella lontananza, musiche soavi. E quel canto delle cicale, che è, nel Giappone, uno dei rumori eterni della vita, al quale non dovevamo più badare pochi giorni dopo, poiché forma il fondo di tutti i rumori terrestri, si udiva ancora, sonoro, incessante, dolcemente monotono, come lo scrosciare di una cascata di cristallo.

da La Signora Crisantemo, di Pierre Loti
formato epub – kindle – ISBN 978-88-98823-33-8
Tarka edizioni