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TORTA PASQUALINA

È l’ultimo dei grandi intermezzi (ma sarebbe più giusto chiamarlo interludio) della cucina genovese.

La ricetta originale è perduta nel tempo, anche se sappiamo, da un documento casuale, che già nel XVI secolo era diffusa.

La “torta pasqualina”, chiamata così perché faceva parte del menu pasquale (che comprende le lattughe ripiene, la pasqualina e il classico cosciotto d’agnello o di capretto al forno), è una delle tante varianti, forse la più fortunata, del modello quattro- cinquecentesco della “torta mantovana”, cioè d’una sfoglia-conteni-tore all’interno della quale si inserisce un ripieno “soffritto” (ecco un altro elemento costante della gastronomia del Nord Italia) a base di verdure o anche di carni pasticciate.

Il Medioevo, come abbiamo potuto constatare, ci ha lasciato, soprattutto a partire dal tardo Trecento, molti esempi di torte “scoperte”, con cipolle, porri oppure pesci. Ci ha lasciato in retaggio la “torta lavagnese” o “torta dei Fieschi”, dove prevale la carne bianca. Ma, si sa, la cucina genovese e del Genovesato inclina irrimediabilmente verso i piatti di magro. Nulla di strano dunque che la torta salata “emblematica” per eccellenza sia confezionata con l’umile bie-tola, cosicché sovente viene definita “torta di giaee” in dialetto. Occorre seguire bene i passaggi: la “pasqualina” è un piatto da principi che non ammette esecuzioni mediocri. Tutti gli ingredienti impiegati debbono essere di primissima qualità. La pasqualina non è cibo da avari.

ingredienti • 1 kg. di fior di farina • Maggiorana • Acqua tiepida • Sale • 4 mazzi di bietole (erbette) • Parmigiano q.b. • 1 kg. di quagliata (o ricotta piemontese) • 2 bicchieri di crema di latte • Olio di frantoio • Uova fresche (da 8 a 12)

La pasta si prepara lavorando attentamente la farina e l’acqua con un’abbondante cucchiaiata d’olio. Impastando, aggiungere un pizzico di sale. L’impasto deve essere messo a riposare con una salvietta bagnata sotto e una asciutta sopra. Se la massaia è esperta, può già dividere la pasta in tante parti quante sfoglie vuole poi tirare.
Si va  da 16 a 24 (la tradizione dice 33, come gli anni di Cristo).

Le bietole vanno mondate delle coste e delle nervature, quindi lavate e tagliate a listerelle. Vanno poi lessate in acqua leggermente salata, strizzate e stese su un grande vassoio e mescolate con sale, parmigiano grattugiato e maggiorana tritata. Ancora a parte si strizza in un telo pulito, espellendo il siero, la quagliata, cioè la “prescinsêa”. In mancanza della quagliata (oggi introvabile) si può usare la ricotta piemontese.

La quagliata va stemperata con qualche cucchiaio di farina e i 2 bicchieri di crema di latte (panna in mancanza d’altro) e rimestata. A questo punto occorre “tirare” la sfoglia con la massima abilità, sì da ottenere dei dischi ampi e sottili che debbono risultare tanto grandi da coprire un’ampia teglia unta, dalla quale traboccare lungo i bordi esterni. Occorre sovrapporre un certo numero di sfoglie che vanno unte ogni volta che si stendono nella teglia per evitare che si attacchino. Un tempo, le massaie usavano una lunga piuma di gallina che evitava le rotture. Attenzione! La sfoglia non deve mai rompersi in alcun punto.

Quando sarete a una dozzina di sfoglie, stenderete la bietola e verserete poco olio qua e là, senza esagerare. Sopra la bietola occorre adagiare la quagliata.
Nella quagliata si ricaveranno con il dorso d’un cucchiaio (o anche a mano) delle nicchiette, tante quante sono le uova che vorrete inserire (da 8 a 12, almeno sulla base delle dosi che in questa ricetta abbiamo dato).

Ogni nicchietta conterrà un po’ d’olio, un po’ di parmigiano grattugiato e una nuvoletta di pepe bianco. Poi scoccerete le uova in modo che siano contenute nelle loro fossette, senza rompersi e senza trasbordare. Ora si dovrà proseguire a ricoprire la torta con altre sfoglie. Diciamo altre 8-10-12.
Dovranno sempre essere oliate e ben distaccate. Con una cannuccia da bibite sarà bene soffiare di tanto in tanto in modo che le sfoglie siano ben gonfie e distaccate tra loro. Con un coltello si taglino i lembi della torta ai bordi del testo e li si arricci sempre ungendo con la preziosa penna, in modo che formino un cordone ritorto.

La torta va messa nel forno ben caldo e lasciata crostare per almeno tre quarti d’ora (o un’ora se le sue dimensioni sono notevoli). Se ne segua la cottura e si punga la sfoglia superiore, per evitare che la crosta scoppi e risulti antiestetica. Ci sono golosi che consumano la torta ancora calda. È però preferibile gustarla appena appena tiepida o addirittura (secondo la mia opinione) fredda. Il segreto per giudicare una buona “pasqualina” è l’assaggio dell’orlo, detto gentilmente in genovese “oexin” (cioè piccolo orecchio). Se è croccante e fragrante la torta merita la lode, se

sa di pane e risulta cruda all’interno, siamo di fronte a un mediocre prodotto di rosticceria. La variante più nobile della “pasqualina” vede i carciofi al posto delle bietole. La prassi di preparazione è la stessa, soltanto che i carciofi, tagliati a fettine, debbono prima essere passati in un battuto di olio, cipolla, prezzemolo e maggiorana. I funghi, tritati finemente, si stendono sulla sfoglia e vanno poi coperti con la quagliata.

La foto in evidenza è tratta dal blog Le cinque erbe.

da “La cucina dei Genovesi” – Paolo Lingua

copertina La cucina dei Genovesi

Una ricetta e una regione al giorno – da 01/01/2019

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